giovedì 16 agosto 2012

Ed invece.


Ho un dolore che non ti immagini, che blocca il respiro e annulla. C'è una resa nel mio cuore a ciò che mi uccide vergognosa. C'è poco che mi solleva, nulla. Il perchè non riesco mai a capirlo, ma è come se fosse lo stesso dolore da quando sono piccolo. Non ce la faccio più così, mi sento male.

Mi chiamo col mio nome, ho ventitrè anni. Li ho passati tutti a cercare una direzione, che non ho mai saputo quale fosse, fino a questo momento. Nessuno mi aveva detto che prima o poi sarebbe arrivato ed invece. 
Nodo alla gola, stomaco chiuso, sorrido meno. Qualcosa da qualche mese, m'appesantisce il respiro e il pensiero; l'anima mia si piega su se stessa, come se raggomitolarsi in quel modo la facesse scomparire per un pò. Ho un odore che è sempre lo stesso da quando sono piccola, ho provato mille volte a cambiarlo e quando me ne hanno dato la reale possibilità non ho voluto farlo più. La crescita è desiderare il cambiamento decisivo in ogni istante della propria esistenza fino al momento del rifiuto dello stesso. Anzi, la crescita è quel rifiuto. Mi getto in questo fiume come i cadaveri nel Gange, a peso morto lascio che il mio corpo venga trascinato, metto tutta me stessa nel divenire, tra uno stato di cose e l'altro, tra i paradossi della morte. Riempio spazi vuoti sulla superficie dell'acqua, come una mosca in pasto ai pesci.
Mio nonno mi regalò una giacca quando ero piccola, mi disse: "quando ti andrà bene, allora sarai grande e andrai via di qua"; nonostante abbia passato tutto il tempo ad aspettare il momento in cui dalle maniche sarebbero uscite le mie mani, in realtà non desideravo nient'altro che una giacca eternamente troppo grande.

sabato 11 febbraio 2012

la prima alba dell'Est

Cari lettori,
ho scomodato vecchi personaggi, di vecchie storie. L'ho fatto per non dimenticare, per tenere uniti i pezzi di un puzzle che credevo fossero andati persi. Qualcuno il realtà li ha accuratamente raccolti, mentre io impazzivo e buttavo tutto a terra, qualcuno ha raccolto quello che io avevo intenzione di perdere.
A te, amico mio. Fratello d'anima, e di occhi. 


Vincent alloggia nella camera 906, al nono piano. Sembra conoscerla da una vita quella città, eppure è solo un mese che abita lì. Gli piace spegnere le luci, affacciarsi alla finestra e farsi illuminare dai lampioni che punteggiano le strade. Quella luce arancione è di compagnia quando la vodka sta per finire. 
Silenzio in camera, sente la testa leggera ma non abbastanza da poter smettere di pensare. Sono le 3 del mattino e a Praga il sole sorge freddo: deve farsi strada lentamente tra le nuvole e i primi raggi, simili alle dita di una mano lunga e sottile fanno capolino tra le nuvole quasi come se con dolcezza volessero spostare quel grigiore. Ma ancora c’è tempo prima dell’alba e lui non ha sonno. Prende la sua felpa, esce dalla camera e si avvia verso l’ascensore.

Schiaccia il pulsante di chiamata.
Din don.
E’ già arrivato.
A quest’ora nessuno lo usa.
Entra e lo avvolge una luce biancastra.
Sente un rumore ovattato (è il rumore di tutti gli ascensori o è colpa della vodka?)
Appoggia le spalle allo specchio. -Quanto ci vuole per arrivare alla Hall?-
Silenzio.
Din don. Si apre la porta.
E’ nella Hall.

Si avvia verso l’uscita attraversando quell’enorme salone vuoto e silenzioso e quando si trova a cinquanta centimetri dalla porta principale, questa si apre e lui viene investito da uno sbuffo di aria fredda. Gli viene da ridere pensando che se ci fosse stata lei gli avrebbe sicuramente detto di coprirsi con la sua aria materna… e gli avrebbe anche dato la sua sciarpa tutta colorata. L’avrebbe tolta per dargliela e lui l’avrebbe indossata senza esitare un solo istante, perché così avrebbe respirato il suo profumo alla vaniglia.

Intanto è fuori e la porta si è chiusa alle sue spalle. Vaga per qualche minuto in cerca di un bar aperto per comprare un’altra bottiglia della peggiore Vodka in commercio nella Repubblica Ceca. Il suo albergo dista poco da un bar dimenticato da Dio. E’ strano perché c’è sempre pochissima gente e all’interno l’odore di tabacco si mischia con quello dei vari caffè serviti a poche corone. Ci sono dei tavoli di legno scheggiati e resi vecchi dalle incisioni di chi è passato da lì, i camerieri portano addosso un velo di rabbia e malinconia e una tv in un angolo remoto di tanto in tanto ha bisogno di incassare dei colpi per ricevere meglio il segnale. Ma è tremendamente bello il panorama che riesci a contemplare dalle vetrate: Ponte Carlo che unisce le sponde del fiume danzante, al di là del ponte si intravedono le  guglie nere del Palazzo Imperiale che si elevano come fiamme al cielo tra giochi di luce, non ci sono macchine a quest’ora e il rumore dell’acqua fa da padrone nel sublime scenario. 

L’est è freddo e malinconico. Ma ti rimane dentro. Un campanello suona appena lui apre la porta del locale e una donna anziana che spazza le briciole e i mozziconi di sigaretta buttati sul pavimento si gira verso di lui con aria seccata 

"Ma ha visto che ora è? Stiamo chiudendo!"
"Cercavo della vodka, una qualsiasi…"
"Ne dovremmo avere, ma la bottiglia non è piena"

Si avvia verso il bancone, si abbassa e prende una bottiglia. La porge a Vincent
"La prenda e se ne vada che è tardi e io vorrei tornare a casa!…su, via!"
Lui cerca delle corone in tasca per pagare ma lei lo ferma 
"Ha capito cosa ho detto? Vada…! Tanto ce n’è poca lì dentro e chissà da quanto non ne serviamo di quella roba…"
Vincent la fissa mentre lei lentamente torna ai suoi doveri. Poi si avvia all’uscita, tira la porta e il campanello suona di nuovo ‘Buonanotte!’ esclama. E dal fondo del locale arriva una grigia e piuttosto sforzata risposta ‘a lei!’.

Uscendo nota sotto l’insegna qualcuno che dorme con la testa appoggiata su un borsone, è difficile vedere il volto quanto capire se si tratta di un maschio o una femmina. Pensa che chiunque esso sia, di certo è arrivato a Praga da poco e di certo ha già visto il panorama migliore della città. Steso a terra con la faccia rivolta verso il ponte. 
Mette il cappuccio e torna verso l’albergo.

giovedì 5 gennaio 2012

Tutte le volte che ti conosco

"Il tabacco e le dita ingiallite. Come un rituale, il pizzicare dal pacchetto e il rollare con quelle cartine che ho visto da te per la prima volta. Come un rituale, parlare a raffica e fermarsi solo quando dobbiamo leccare la colla e chiudere la sigaretta. Come un rituale, ma non come un'abitudine. E se pure fosse l'abitudine, noi amiamo la routine, ci fa sentire sicuri.
Di solito i pensieri ce li mettiamo in ordine seduti in macchina, con le gocce di pioggia che danno un senso di freddo e umidità pesante. Di solito non riusciamo a fare ordine noi, per noi stessi. Quindi facciamo ordine noi, l'uno per l'altro. Quando ti leggo, mi torna la voglia di scrivere e quando ti parlo, mi torna la voglia di leggere. 
Io ti ho conosciuto un numero infinito di volte: la prima parlammo di libri, la seconda del mio soprannome e la terza volta parlammo di un giornale. L'ultima volta che ti ho conosciuto è stata stasera. In tutto quel tempo che è passato dall'incontro ai distributori di caffè fino a stasera, l'ho fatto altre n volte. E il sogno di cenare cinese ordinato al take away nello studio disordinato e tra le ceneriere ha i contorni che si definiscono sempre di più."

Mi fermo
lecco la colla della cartina
chiudo la sigaretta.

"Dammi l'accendino, che mi manca sempre qualcosa..."